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Marziane in fase 3

Mi si chiede se abbia voglia di scrivere un contributo sul ritorno alla normalità di bambine e bambini dopo i mesi di lockdown. “Va bene lo stesso se non so ancora cosa sia, né dove stia la normalità?”

MARZIANE IN FASE 3

di Irene Merlini  – Counselor Filosofica, Esperta in “Philosophy for Children” e Autrice

Mi si chiede se abbia voglia di scrivere un contributo sul ritorno alla normalità di bambine e bambini dopo i mesi di lockdown. “Va bene lo stesso se non so ancora cosa sia, né dove stia la normalità?”

FASE 1: “Mamma, quando passerà questo «puntinaccio» potremo andare con lei in Messico?”

“Certo che potremo” dico a mia figlia e alla sua bambola del Chiapas, contenta di poterle rispondere per una volta facilmente e con sicurezza.

È la “fase 1”, quella del lockdown, che non è stata una passeggiata per nessuno: per chi era solo e chi in coppia, per i genitori e per i bambini, i dimenticati, che, in assenza di pari, hanno fatto i conti con la noia: avendo poca dimistichezza con la vita interiore, si sono trovati a ipersvilpparla o ad accantonarla completamente. Nella tragedia, però, era tutto spaventosamente normale. Normale viene da “norma”, cioè legge, regola, sia nel senso normativo, sia in quello di pratica comportamentale stabilita da ciò che fanno i più. Ma, in entrambi i sensi, la norma era una soltanto: “Non uscire”. Allora, nella drammaticità e nella difficoltà che questo ha determinato, sentirsi “normati” coincideva con l’essere “normali”.

FASE 2: “Mamma, perché quelle due bambine giocano insieme?”

“Probabilmente fanno parte della stessa famiglia, saranno sorelle, oppure cugine”. Anche questa è una risposta abbastanza semplice, ma l’agilità con cui la pronuncio si accompagna a una stretta al cuore al vago sapore di senso di colpa per essere madre di una figlia unica. La “fase 2” diventa allora più complicata perché iniziano i confronti. “Oggi usciamo, ma mi raccomado: mascherina, distanza, e mai, mai metterti le mani sugli occhi o sul naso”. Caricata la borsa di munizioni igienizzati, io e lei siamo finalmente fuori, per dar sfogo a gambe e polmoni. Ma, come noi, le persone che incontriamo, più che una passeggiata sembrano fare una ricognizione nel campo nemico del virus. La normalità è la “marzialità”. E se la norma ci chiede di essere guerriere e guerrieri, noi non siamo da meno: ci travestiamo da combattenti, tutti uniti per la lotta al Covid.

FASE 3: “E tutti loro, mamma? Anche loro sono cugini? Allora perché giocano insieme?”

Mi mordo la lingua per soffocare quel «Perché sono bambini!» che sta per uscire.

“Non lo so” è l’unica cosa che farfuglio, perché – aiuto –  non so mentire, e so bene che no, non possono essere tutti cugini. Viviamo al mare: frotte e capannelli di 4, 6, 8 e più bambini che si rincorrono, si acchiappano e giocano alla lotta, ai castelli e alle onde, probabilmente sono gli stessi dei parchi di città.

È la “fase 3”, che nel suo chiamarsi “ritorno alla normalità” sembra la più schizofrenica. La norma non è più in mano a droni, gendarmi e vigili urbani col taccuino delle multe, ma è affidata a una apposita segnaletica che tappezza ogni bar, ogni spiaggia, ogni esercizio pubblico. È il “buonsenso” a vigilare.

“Mamma, che significa quello? E quello? E quello?”

“Che bisogna stare a un metro di distanza, altrimenti serve la mascherina; che non si può stare tutti insieme; che per abbracciare chi ci pare bisogna aspettare che «il puntinaccio» se ne vada”

“E allora perché loro stanno appiccicati senza mascherina? Perché tutti loro stanno insieme?” Perchè, perché, perché? E diventa un bel problema il fatto che la norma che lei “legge” nei disegni vada al contrario della normalità che vede intorno a sé. E la normalità, nel senso di ciò che fa la maggioranza, si è stancata e ha scelto di divorziare dalla normativa. La maggioranza adulta, per i bambini, ha scelto di fare della spiaggia del 2020 una copia esatta di quella del 2019, come se nulla fosse accaduto e nulla stesse accadendo. La normalità diventa trasgredire la norma.

Allora io, che non sono una fan della normativa a prescindere, né una sostenitrice della normalità solo perché “così fan tutti”, ho bisogno di tempo per spiegarle questa faccenda complicata delle regole, il fatto che se nessuno rispetta la regola, regola diventa il trasgredire la regola, ma non sovverte la regola. Così cerchiamo una spiaggia “libera” in ogni senso, perché intanto la nuova normalità ha deciso che siamo “marziane” se per avvicinarci indossiamo la mascherina, se di tanto in tanto usiamo l’igienizzante. E non mi va certo che lei si senta marziana.

In quei due o tre posti che abbiamo scelto, scopriamo che la distanza può essere a colori: lei fissava un’ altra piccola marziana che faceva l’equilibrista su un tronco, e ne ha trovato uno vicino per provare. Hanno fatto amicizia e inventato giochi bizzarri, come una specie di basket con due finti canestri da centrare ognuna con la sua palla. E poi ogni tanto arrivano altri piccoli marziani: “Guardami, sai fare questo?” dice uno tirando una pigna per colpire un ramo altissimo, oppure fanno a una staffetta in cui non ci si passa il testimone, ma una parola magica da pronunciare.

È proprio vero che la normalità uccide la fantasia, penso tra me e me. Spesso proponiamo ai bambini la normalità per paura che non sappiano cavarsela. Forse è un timore più nostro, una pigrizia più nostra. Sono i problemi, le situazioni nuove e difficili che li portano a ingegnarsi, scoprire e inventare. E farlo insieme è più divertente. Se poi le pigne e i palloni sconfinano o si scambiano, non crolla mica il mondo: ci si puliscono le le mani e si ricomincia.

E c’è un’altro aspetto: se il toccare/ toccarsi è stato sempre – e a ragione – il protagonista dell’educazione sensoriale, lasciando però gli altri sensi sullo sfondo, la pandemia diventa occasione per scoprirli. Lo noto perché si guardano e si osservano molto più di prima. Si parlano, si raccontano e, soprattutto, si ascoltano. Spesso per i bimbi il confine con l’altro, il percepirsi separati, finiva per ridursi al “mio/tuo”: “ridammelo!”, “no, è mio!”, si urlava strattonando oggetti e contendendosene la proprietà. Adesso fa capolino un’altra sfumatura: l’altro è altro perché lo osservo e lo ascolto, mi osserva e mi ascolta, ed è così che possiamo giocare insieme, perché lui è lui e io sono io. Il Covid ha insegnato che la distanza non è lontananza a prescindere, ma significa una vicinanza delicata, che ha in sé il germe del rispetto.

Da che il Coronavirus ci ha svelato quanto la scienza sia umana e fallibile, quanto sia lontana dall’essere divina, la nostra reazione di massa è stata una libertà a casaccio: “Se la scienza barcolla, non serve a niente; se non sa darmi risposte certe, allora sono libero di fare ciò che mi pare”. Due settimane sono passate da che il virus si è portato via Giulio Giorello, eccezionale filosofo della scienza e grande maestro di libertà. In ogni occasione lui sottolineava che “libertà” è usare la ragione, dare e chiedere ragione di ciò che pensiamo e facciamo, di ogni scelta che ci porta a comportarci o non comportarci. Perché la scelta è sempre pubblica, la ragione è sempre pubblica, nel senso che la libertà è una responsabilità nei confronti di tutte e tutti.Non sono una donna di scienza. Provo solo a usare la ragione pubblica, provo ad essere libera. E poco conta se controcorrente è semplicemente più difficile. Così andiamo avanti, tra il dubbio e la fantasia, un giorno per volta e sapendo sempre di poter sbagliare, nella speranza che al prossimo giro di normalità, quando piccoli marziani e piccoli terrestri saranno solo bambine e bambini che si rincorrono, si acchiappano e giocano alla lotta, ai castelli e alle onde, ci sia più spazio per la libertà

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